James Joyce, di Italo Svevo

Joyce e Svevo:
tra amicizia e letteratura.

 

 

Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz, è considerato uno dei maggiori esponenti della cultura mitteleuropea, uno scrittore che, nei suoi tre romanzi – Una vita (1893), Senilità (1898) e La coscienza di Zeno (1923) – è riuscito a racchiudere ed esprimere elementi quali il carattere antiletterario della prosa, il plurilinguismo dovuto alla sua provenienza geografica (figlio di un ebreo di origine tedesca risiedente a Trieste), e l’utilizzo di tecniche narrative, quali il monologo interiore, che lo legano alla corrente del romanzo d’analisi europeo.

Nato a Trieste nel 1861, Svevo fu spinto dal padre alla carriera commerciale; nonostante covasse segrete aspirazioni letterarie che lo spingevano a frequentare assiduamente circoli artistici e a gettarsi nella stesura di testi narrativi e teatrali, Svevo, terminati gli studi, divenne impiegato di banca e, dopo aver sposato la cugina Livia Veneziani, iniziò a dedicarsi alla gestione della ditta dei suoceri, produttrice di un particolare tipo di vernice sottomarina che impedisce ad alghe e molluschi di attecchire alla chiglia delle navi. Fu proprio in questo ambito che la sua strada incontrò quella di James Joyce.

In seguito alla continua espansione della ditta veneziani e all’apertura di nuove filiali europee, Svevo si vide costretto a riprendere in mano il suo inglese, rivolgendosi ad un giovane insegnante irlandese della borghesia triestina. Quelle che inizialmente avrebbero dovuto essere semplici lezioni di inglese commerciale, si trasformarono ben presto in qualcosa di più – come ricorda Livia Veneziani in Vita di mio marito,

 

[…] le lezioni si svolgevano con un andamento fuori dal comune. Non si faceva cenno alla grammatica, si parlava di letteratura e si sfioravano cento argomenti. Joyce era divertentissimo nelle sue espressioni e parlava il dialetto triestino, come noi, anzi un triestino popolare appreso nelle oscure strade di città vecchia dove amava sostare.

 

Fu l’inizio di un’amicizia che si protrasse per molti anni – anche dopo l’addio definitivo di Joyce alla città di Trieste, i due rimasero in contatto tramite lunghe epistole – durando fino alla morte di Svevo nel 1928.

 

Per maggiori informazioni sulla vita e le opere di Italo Svevo, consulta il sito ufficiale del Museo Sveviano di Trieste.

 

 

“La resurrezione di Lazzaro”

Nonostante la forte passione per la letteratura, il rapporto di Svevo con quest’arte fu, tuttavia, piuttosto conflittuale. Se da una parte, questa sua inclinazione era vista come una distrazione dall’ambiente affaristico a cui avrebbe dovuto dedicare tutto il suo tempo e la sua attenzione – e, analogamente, anche Joyce era visto da Livia come una distrazione dal “vero lavoro” del marito – dall’altra si trovava di fronte ad un costante di rifiuto da parte della maggior parte dei triestini che avevano letto la sua opera. A chiunque provasse a sostenere che Svevo fosse un buon romanziere, i triestini

 

<[...] ridevano in faccia e […] ripetevano l’eterno ritornello che Svevo non sapeva scrivere bene in italiano. […] Nicolò Vidacovich, presidente della società di Minerva, più onestamente [diceva] che gli scritti di Svevo erano troppo deprimenti e non abbastanza patriottici per essere accettati a Trieste. Il silenzio su Svevo a Trieste era di natura politica e cospirativa.

[da: Gatt-Rutter, John. 1988. Italo Svevo: A Double Life. Oxford: Clarendon Press]

 

“La resurrezione di Lazzaro”, come la definì successivamente lo stesso Svevo, avvenne proprio per merito di James Joyce. Dopo aver letto Musica da camera e alcuni racconti di Gente di Dublino, fu il turno di Svevo a dare i propri romanzi al giovane insegnante di inglese – che, con sua sorpresa, aveva già letto. Nonostante l’ostilità da parte dai conterranei, Joyce sosteneva che “ci sono dei passi, in Senilitàz/i>, che neppure Anatole France avrebbe potuto scrivere meglio“: era convinto di aver scoperto qualcosa di speciale, ed era fortemente intenzionato a fare in modo che anche il resto del mondo se ne accorgesse.

Alla fine ebbe successo. Dopo aver letto La coscienza di Zeno ed esserne rimasto entusiasta, Joyce lo raccomandò a critici francesi del calibro di Valéry Larbaud e Benjamin Crémieux: si trovarono completamente d’accordo con lo scrittore irlandese, e La coscienza di Zeno fu tradotto in francese. Successivamente, soprattutto grazie alle critiche positive ricevute all’estero, il romanzo iniziò a diffondersi anche in Italia, facendo raggiungere a Svevo il successo e l’attenzione che per tutta la vita gli erano stati negati. Come ricorda Letizia Svevo in un’intervista con Sergio Falcone,

 

Ricordo la sua felicità. Joyce aveva parlato del libro ad Eliot. Più di trent’anni […] di attività letteraria svolta nel silenzio. Non manifestava la propria disperazione; alla mamma, semmai. Ma aveva deciso di non scrivere più. Anche perché riteneva di rubare del tempo all’industria, ai soci, alla sua stessa famiglia. Mio marito tuttavia lo spiava mentre prendeva appunti di letteratura sul bloc-notes. Aveva 64 anni quando la critica si è accorta di lui. È morto a 67 anni. La sua gloria (appena tre anni in vita) la doveva a Joyce. Ci mostrava trionfante la lettera di Larbaud che iniziava così: “Egregio signore e maestro“. Ci diceva: “Ma fioi, ma cossa che me nassi nela mia tarda età![“ma figlioli, cosa mi sta succedendo nella mia tarda età!”].