Dubliners

Gente di Dublino:
l’Irlanda di Joyce.

 

 

L’assenza di sentimentalismi è così rara nella prosa inglese contemporanea che si potrebbe semplicemente affermare che ‘la raccolta di racconti di Joyce è prosa senza sentimentalismi’.

[…]

Il merito di Joyce – non direi il merito principale, ma sicuramente quello più interessante – è quel suo evitare accuratamente di dire ciò che non ti interessa sapere. Presenta i suoi personaggi in modo vivido e immediato, non li romanticizza, non tesse trame. È un realista. Non crede che la ‘vita’ migliorerebbe se fermassimo la vivisezione o se istituissimo un nuovo sistema economico. Ci mostra le cose così come sono. Non si sente vincolato dalla fastidiosa consuetudine secondo cui qualsiasi aspetto della vita, per essere considerato interessante, deve essere modellato nella forma di quella che è convenzionalmente ritenuta una ‘storia’.

[da: Pound, Ezra. 1914. “‘Dubliners’ and Mr. James Joyce”. Egoist, 15 luglio]

 

Considerata da molti l’opera più semplice di Joyce, Gente di Dublino viene solitamente definita “realista”: la descrizione dei luoghi – sia naturali che non – e dell’atmosfera che vi regna è precisa e dettagliata, e la precisione lessicale è portata allo stremo – caratteristiche che aiutano il lettore a sentirsi catapultato nella Dublino di primo ‘900. Tuttavia, questa attenzione quasi maniacale ai dettagli non deriva, come potrebbe sembrare, dal desiderio di tratteggiare un ritratto lusinghiero della città; al contrario, vuole mostrare come tutti i suoi abitanti, vittime del proliferare di vincoli morali, sono pian piano diventati schiavi della loro cultura, delle routines famigliari e lavorative, e della vita sociale, politica e religiosa del paese – come scrisse in una lettera a Grant Richards datata 5 maggio 1906, “[l]a mia intenzione era di scrivere un capitolo della storia morale del mio paese e ho scelto Dublino come scena perché quella città mi pareva essere il centro della paralisi”. Intrappolati, a loro insaputa, in questa forma di “paralisi”, l’improvvisa presa di coscienza da parte dei “dublinesi” di questa loro condizione avviene sottoforma di “epifania” – un gesto, un oggetto qualsiasi che, inaspettatamente, scatenano la rivelazione. Ed è qui che realismo e simbolismo, nell’opera di Joyce, si fondono: tutti quei dettagli così fedeli e rappresentativi del “reale” acquistano, nella maggior parte dei casi, un doppio e più profondo significato – diventano, alternativamente, o testimoni della paralisi, o spinta alla liberazione.

Composta da un totale di quindici racconti scritti tra il 1904 e il 1907, Gente di Dublino può essere suddivisa in quattro sezioni, ognuna delle quali dedicata ad una fase della vita: l’infanzia, l’adolescenza, la maturità e la vita pubblica. L’ultimo racconto, “I morti”, funge da epilogo all’intera raccolta.

L’opera fu pubblicata per la prima volta nel 1914 da Grant Richards, dopo essere stata rifiutata diciotto volte da quindici case editrici diverse.

 

 

“I morti”.

Protagonista del racconto conclusivo della raccolta – che, oltre ad essere l’ultimo a comparire nel libro, è anche il più lungo e l’ultimo ad essere stato composto – è Gabriel Conroy, professore e critico letterario di cui Joyce esplora il rapporto con amici e famiglia, insinuando che sono proprio quei rapporti a portarlo ad una progressiva crisi morale.

Dopo aver partecipato ad una festa di Natale a case delle zie e aver avuto a che fare con una varietà di personalità diverse, Gabriel si prepara per andarsene. È in quel momento che trova sua moglie Gretta sulle scale, immobile e assorta, come se la sua testa avesse abbandonato la stanza e fosse improvvisamente volata da un’altra parte. Da una stanza vicina arrivano le note inconfondibili di The Lass of Aughrim, una melodia che sembra averla ipnotizzata.

Una volta giunti nella loro stanza d’albergo, la donna confessa che la musica le aveva ricordato un ragazzo che aveva conosciuto durante la sua giovinezza a Gallway – un ragazzo che era solito cantarle quella canzone e che era morto a diciassette anni, sfidando la pioggia, il gelo invernale e la sua stessa malattia pur di poterla incontrare. Dapprima sconvolto nello scoprire che la moglie aveva mantenuto quel segreto per tutti quegli anni, Gabriel viene poi pervaso da un senso di sconfitta e mediocrità, giungendo alla conclusione che, forse, è meglio soccombere a una forte emozione che venire pian piano sopraffatti dalla vecchiaia. In un monologo interiore dalla forte carica emotiva, mentre la neve cade su una Dublino in cui sembra sfumare progressivamente il confine tra vivi e morti, Gabriel è l’unico tra i personaggi joyciani descritti in Gente di Dublino che, alla fine, acquista piena consapevolezza della necessità di una svolta radicale – che si tratti di morte fisica o di fuga dall’Irlanda.

 

 

L’Irlanda di Joyce.

In Guardiano di mio fratello, Stanislaus Joyce scriveva che

 

[James] sosteneva sempre di essere stato fortunato a nascere in una città ricca d’anni e di storia quanto bastava per essere considerata una tipica capitale europea, e al tempo stesso piccola abbastanza da poter essere osservata nel suo insieme; e credeva che le varie circostanze di nascita, di talento e di carattere avessero fatto di lui il vero interprete di essa.

 

Ed è quello che James Joyce fece nei primi vent’anni della sua vita – studiò, giudicò, interpretò. E, nel 1904, abbandonò il paese in un esilio auto-imposto, coinvolgendo dapprima la futura moglie Nora e, successivamente, anche le sorelle Eva e Eileen, e il fratello Stanislaus. Durante i primi anni di permanenza nel continente, Joyce tornò nel paese natio per motivi sia personali che lavorativi, portando in visita anche il figlio George; tuttavia, dopo il 1912, non vi mise mai più piede – nonostante visse per altri diciannove anni. In Un ritratto dell’artista da giovane, alla domanda su che cosa sia effettivamente l’Irlanda, Stephen Dedalus risponde che l’Irlanda non è altro che una “[…] vecchia scrofa che mangia i suoi piccoli” – e, con queste parole, Stephen si fa portavoce del suo alterego e creatore.

Secondo Joyce, il paese divora i suoi abitanti attraverso un ordinamento sociale che favorisce i forti a discapito dei deboli, spostando lo sguardo di fronte a maltrattamenti e ingiustizie e aggrappandosi ad una tradizione borghese che rifiuta qualsiasi forma di cambiamento –

 

[c]ome potrebbe piacermi l’idea di una casa? La mia non era che un affare borghese rovinato da abitudini troppo prodighe che ho ereditato. Mia madre è stata uccisa lentamente, credo dai maltrattamenti di mio padre, da anni di guai, e dal mio comportamento cinicamente franco. Guardando il suo volto quando era adagiata nella bara […] ho capito che stavo osservando il volto di una vittima e ho maledetto il sistema che l’aveva resa una vittima.

[da: James Joyce. 1904. Lettera a Nora Barnacle, 29 agosto]

 

– tradizione e pietismo che si riflettono anche nell’arte e nella letteratura, bloccando le spinte innovative e applicando una rigido processo di censura.

Li divora attraverso espressioni estreme di nazionalismo e conservatorismo politico, che, nonostante siano figlie di convinzioni fondate e razionali, sfociano invece nella violenza gratuita. E, infine, li divora attraverso un dogmatismo ed estremismo religioso che non sono altro che simboli del potere oppressivo della chiesa cattolica –

 

[s]ei anni fa ho abbandonato la Chiesa Cattolica, odiandola vivissimamente. Mi è stato impossibile restarvi a causa degli impulsi del mio carattere. La combattevo segretamente quando ero studente e non ho accettato i posti che mi offriva. In questo modo mi sono ridotto a chiedere l’elemosina ma non ho perso la mia dignità. Ora la combatto apertamente con quello che scrivo e dico e faccio.

[da: James Joyce. 1904. Lettera a Nora Barnacle, 29 agosto]

 

In una conferenza tenuta all’Università Popolare di Trieste il 27 aprile 1907, Joyce dichiara che

 

[…] l’irlandese quando si trova fuori dall’Irlanda, in un altro ambiente sa molte volte farsi valere. Le condizioni economiche ed intellettuali che vigono in suo paese non permettono lo sviluppo dell’individualità. L’anima del paese è indebolita da secoli di lotta inutile e di trattati rotti, l’iniziativa individuale paralizzata dall’influenza e dalle ammonizioni della chiesa, mentre il corpo è ammanettato dagli sbirri, i doganieri e la guarnigione. Nessun che si rispetta vuol stare in Irlanda ma fugge lontano siccome da un paese ch’abbia subito la visitazione di un Gèova adirato.

 

Secondo lo scrittore, quindi, l’unica soluzione era la fuga – soluzione che, come già detto in precedenza, adottò in prima persona. Tuttavia, ciò che a questo punto viene spontaneo chiedersi, è se Joyce sia effettivamente riuscito ad abbandonare completamente l’Irlanda.

Alcune fonti raccontano che, durante la sua permanenza a Parigi, uno dei suoi passatempi preferiti era la ricerca di visitatori provenienti da Dublino per poter chiedere loro i nomi dei pub e dei negozi che si trovavano lungo le strade principali della capitale irlandese. Due delle suo opere principali, Gente di Dublino e Ulisse, sono ambientate a Dublino, raccontandone minuziosamente ogni più piccolo dettaglio. Finnegans’ Wake, la sua opera finale, riprende e riproduce il suono della lingua irlandese come mai nessun libro era riuscito a fare prima. Forse Joyce, alla fine, riuscì a lasciare definitivamente l’Irlanda, come si era ripromesso, trasferendo altrove la sua intera vita; tuttavia, non è insensato dire che l’Irlanda non lasciò mai davvero Joyce.